I gesti nei luoghi ricorrenti, i sentieri battuti ogni anno, le attività scandite dai moti circadiani e stagionali di questa palla bianca azzurra da cui traiamo nutrimento. Sin da quando eravamo cacciatori raccoglitori e abbiamo deciso di soffermarci a coltivare il suolo, in qualche modo abbiamo aderito alla circolarità del tempo. Un giro della sfera blu attorno alla tonda luce raggiante abbraccia l’arco del ciclo annuale di chi lavora la terra. Un ciclo che ricorre e non varia, viceversa cambia la vita di chi lo vive: talvolta lentamente, talvolta progressivamente, talvolta in modo così rivoluzionario da innescare l’estinguersi della civiltà che ha percorso da tempo immemorabile quella spirale, sempre uguale eppure sempre un po’ diversa, quella contadina. I processi di meccanizzazione e tecnologizzazione dell’agricoltura hanno decretato la nascita dell’industrializzazione agricola e la marginalità dell’uomo. Poter ancora contemplare lo svolgersi dei gesti contadini nelle immagini documentaristiche, nelle cronache, nei film realistici e in quelli amatoriali è una ricchezza. Un patrimonio che ci permette di assistere al racconto di quel che ci ha preceduto, di quel che non c’è più, un racconto che aleggia ancora vivido sugli alpi, fra i muri a secco e nelle fontane di pietra. Un racconto ciclico che si è interrotto, una civiltà che è scomparsa, una memoria che però è ancora viva nei suoi echi, tanto viva da far tornar a taluni la voglia di ancora metter mano alla terra